PERCHé L’OPERA LIRICA FA BENE AL CUORE E AL CERVELLO

Come da tradizione, il 7 dicembre si inaugura la stagione alla Scala di Milano. Ad andare in scena, il Don Carlo di Giuseppe Verdi. Ma c’è di più. Guardare l’opera, anche solo registrata in tv, può far bene alla salute, a partire da quella del cuore e del cervello.

«Lo studio della variazione dei parametri fisiologici in soggetti sani, sia musicisti professionisti sia semplici appassionati ascoltatori di musica, ha evidenziato correlazioni significative tra diminuzione e regolarizzazione del ritmo cardiaco e della pressione arteriosa, frequenza respiratoria e profilo musicale, in particolare con riferimento ad alcune arie della Turandot di Giacomo Puccini e al coro “Va, Pensiero” del Nabucco di Verdi», spiega Lorenzo Lorusso, direttore dell’U.O.C. di Neurologia e Stroke Unit dell’ospedale di Merate, dipartimento di Neuroscienze dell’A.S.S.T. Lecco, curatore e coautore del libro Effects of Opera Music from Brain to Body. A Matter of Wellbeing, assieme a Michele Augusto Riva e Vittorio Alessandro Sironi (Springer).

«Questi risultati hanno aiutato a c mprendere come la musica lirica possa trasmettere emozioni in grado di migliorare specifiche risposte cardiovascolari sia in persone sane, in funzione di un migliore incremento di alcune prestazioni sportive, sia in soggetti malati come i cardiopatici. Le ricerche sulla cosiddetta “operaterapia”, ossia i possibili benefici del melodramma in campo medico, sono per ora poche, ma promettenti».

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Una vera e propria «palestra» anti-età

«Rispetto alla musicoterapia tradizionale, assistere a un’opera, sia a teatro sia semplicemente attraverso l’ascolto e la visione di una sua registrazione, determina un più intenso coinvolgimento emotivo, sensoriale e fisico. Implica l’uso della vista, stimolata dalla scenografia e dai costumi di scena, e una “partecipazione” motoria, determinata dal movimento dei personaggi in scena, dallo sviluppo dell’azione narrativa e dall’interessamento dei neuroni specchio: quando osserviamo qualcuno compiere un particolare gesto si attivano nel nostro cervello gli stessi neuroni», prosegue l’esperto. «Da uno studio che ha analizzato se uno spettacolo d’opera possa indurre un’attività dei neuroni specchio negli spettatori, si è visto come nei cantanti che ascoltano e guardano un’opera la potenza della banda di frequenza alfa dell’ cambia rispetto alla condizione di riposo. Al contrario, durante l’ascolto di un’aria d’opera, la potenza della banda alfa non cambia. Questi risultati suggeriscono che la percezione audio-visiva di questo tipo di spettacoli induce nel pubblico l’attività dei neuroni specchio».

Neuroplasticità

Insomma, stando in poltrona è un po’ come se si frequentasse, senza accorgersi, una palestra per il cervello. «Ecco perché si ipotizza che la musica, soprattutto quando interagisce con il canto e il movimento come accade nell’opera e nel balletto, sia capace di influenzare positivamente la neuroplasticità, ossia la capacità di rimodellare e creare nuove connessioni sinaptiche, quei collegamenti attraverso i quali i neuroni comunicano tra loro», precisa il neurologo. «Non a caso, possono trarne beneficio pazienti non collaboranti a causa delle loro condizioni fisiche (costretti a letto, disabili o in coma) o psichiche (con demenza o ritardo mentale), ma una grande efficacia è evidente soprattutto nei soggetti affetti dalle malattie di Alzheimer e Parkinson. Infine, ascoltare la musica sembra giocare un ruolo interessante nei casi di depressione e di ansia acuta perché è un formidabile generatore di neuromodulatori positivi per il nostro benessere: serotonina, dopamina ed endorfine, i cosiddetti ormoni della felicità».

Il Federal Music Project di Franklin D. Roosevelt

Non solo andare a teatro ma, più in generale, dedicarsi alle arti sembra aiutare a vivere meglio e più a lungo. Per 14 anni, si legge sul British Medical Journal, ricercatori hanno seguito quasi 7mila persone di almeno 50 anni scoprendo che coloro che assistevano a un concerto o andavano in un museo 1-2 volte l’anno avevano il 14 per cento in meno di probabilità di morire durante quel periodo rispetto a coloro che non lo facevano. Le persone che si recavano con maggiore frequenza, ogni pochi mesi o più, avevano un rischio di morte inferiore del 31 per cento. Per gli autori, questa associazione, che non è di causa-effetto trattandosi di uno studio osservazionale, potrebbe essere in parte spiegata da differenze, per esempio, di salute mentale e di attività fisica tra chi si dedicano o meno alle arti. Già Pitagora, Platone e Aristotele parlavano dell’effetto positivo della musica su psiche e corpo. «A poco a poco la musicoterapia come metodo di trattamento integrativo si è fatta strada per la cura di varie malattie, psichiatriche e neurologiche in particolare», spiega Lorusso. «In epoca moderna, i suoi effetti positivi per i disturbi neuropsichiatrici sono stati sfruttati, sotto la supervisione di professionisti in campo medico e musicale, per la prima volta durante la grande depressione dal governo degli Stati Uniti, sotto la presidenza di Franklin D. Roosevelt (1882-1945). Il Federal Music Project utilizzava diversi generi musicali, tra cui l’opera, l’operetta o l’opera da camera. Oggi la musicoterapia è diventata uno dei trattamenti integrativi più utilizzati in ambito sanitario e sociale».

Da notare, infine, il rovescio della medaglia. Spesso nelle opere liriche, da quelle di Verdi a quelle di Bellini, da quelle Donizetti a quelle Rossini, sono ricorrenti temi di salute: malattie neuropsichiatriche, sonnambulismo, patologie infettive, tra cui tubercolosi, tisi e sifilide, handicap sensoriale come cecità o sordità. D’altra parte il melodramma musicale, tra Settecento e Novecento, ha rappresentato una finestra sulla società del tempo.

Come si compone una playlist «terapeutica»

Come si sceglie un brano terapeutico? «Il brano musicale deve avere lo scopo di stimolare aree psichiche sopite, coinvolgendo livelli affettivi più complessi. Alcune musiche, più di altre, hanno questi poteri», precisa il neurologo Lorusso. «In merito la letteratura scientifica è un po’ confusa, spesso si decidono autore e genere senza tenere conto del tipo di ascoltatore. Il rischio è proporre una musica che piaccia solo a chi la “somministra”. Il paziente deve essere al centro per cui solo un’attenta anamnesi musicale, effettuata da un musicoterapeuta, permetterà di indirizzare la scelta. A quel punto si potrà decidere una playlist personalizzata. Il segreto del percorso terapeutico sta nella collocazione logica dei brani. Capire, una volta individuato quello di partenza, quali altri aggiungere e in quale ordine. Non esiste una regola precisa».

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